La filosofia inizia nell’esperienza della sofferenza, cioè nello stare di fronte alla morte.Nella storia dell’uomo la sofferenza è il rovescio della medaglia della felicità, o l’una o l’altra; nel cuore dell’uomo scocca la scintilla del filosofare quando siamo colpiti nei nostri beni, materiali o fisici, come lo fu Giobbe.Poiché siamo naturalmente orientati alla felicità, se ci va tutto bene non riusciamo a prendere coscienza del nostro esistere, perché diamo quasi per scontato che le cose debbano andare bene: ci siamo comportati bene, ci sentiamo giusti, meritiamo la felicità ed il benessere materiale. Ma quando la croce fa capolino nella nostra esistenza?
Solo allora si fa veramente luce sul mistero dell’uomo, anche se la croce ci getta nella notte oscura dell’anima. Molte volte la Madonna a Medjugorje è apparsa nel segno della croce luminosa; nel 1800 la veggente Caterina Emmerich raccontava che la Madonna ad Efeso negli ultimi anni della sua vita meditava la passione di Cristo ogni giorno. Il mistero staurologico cristiano è la chiave risolutiva del mistero filosofico sull’uomo. Forse corro troppo e sono troppo conciso, ma ciò è dovuto al fatto che arrivo a fare queste considerazioni per intuizione e devo ancora maturare una maggiore e più approfondita riflessione filosofica e teologica su questi temi per esprimermi meglio. L’uomo condivide con le altre creature viventi la natura mortale, il nostro esistere ha una “scadenza” nota solo a Dio; quindi l’arco temporale del nostro “dasein” parte da un termine noto (la nascita) ad un altro ignoto (la morte) ma comunque ad un termine. Prendere coscienza del nostro “avere una scadenza” salva l’uomo dal delirio di eternità e fa vivere ogni attimo in pienezza. E nel mezzo? Cosa ne è della nostra vita, ossia l’alternarsi di giorni, mesi ed anni, come lo trascorriamo? Cosa genera in noi la sofferenza e la felicità nell’hic et nunc? Permettetemi alcune considerazioni pratiche. Possiamo dividere il nostro tempo in quattro zone:
– Siamo nella prima zona quando ci occupiamo di cose che non sono né urgenti né importanti ma servono solo ad allentare lo stress ed a procurarci una distensione a poco prezzo che ci dà l’illusione temporanea della felicità per rigettarci in un’ansia ancora peggiore;- Nella seconda è quando ci occupiamo di cose urgenti ma non importanti, in cui abbiamo la soddisfazione di aver risolto alcune situazioni spinose, ma col senso di colpa di esserci ridotti all’ultimo per farle: qui non c’è pienezza di felicità;
– Nella terza zona ci troviamo quando compiamo azioni sia urgenti che importanti, sappiamo di aver risposto alle aspettative degli altri che ci stanno attorno, ci stiamo avvicinando alla felicità ma non abbiamo ancora centrato il bersaglio;
– Solo quando ci occupiamo di cose importanti ma non urgenti avvertiamo in pienezza di stare dando significato alla nostra vita compiendo ciò che per noi realmente conta e ci fa sentire realizzati.
Cosa veramente importa nella nostra vita? Se la sofferenza ci porta ad ordinare tutto secondo una gerarchia di valori significativa per la nostra esistenza, allora ha assolto il suo compito, perché l’uomo non è nato per soffrire ma la sofferenza è strumentale alla sua piena maturazione (“l’uomo è figlio dell’ostacolo2”).Un’ultima considerazione sul libro di Giobbe: alla luce di alcune considerazioni sui racconti genesiaci sull’origine dell’uomo, ossia sul fatto storico che quei racconti siano stati redatti dopo l’esilio babilonese a raffigurare nella cacciata dal paradiso terrestre la deportazione di Israele, sono andato un po’ in crisi pensando alla dottrina del peccato originale: come giustificarla se l’intentio autoris era di far notare che la mancata osservanza della legge sinaitica aveva causato la persecuzione del popolo da parte di Nabucodonosor? Trattasi di intentio textis? Anche questo farà parte di un mio approfondimento. A ciò collego il fatto che il testo del libro di Giobbe sembra, con il suo linguaggio romanzesco, dare maggiore luce sul mistero della creazione dell’uomo, Giobbe sembra il prototipo dell’uomo che era destinato ad un’esistenza felice nell’Eden con tutti i beni possibili ed immaginabili, ma che per invidia del diavolo viene messo alla prova (nella lettura esegetica che Ognibeni del racconto genesiaco dell’albero della conoscenza del bene e del male, pure si dice che Dio voleva con questo mettere alla prova l’uomo): concludo affermando che il linguaggio favolistico del Genesi potrebbe essersi solo limitato a dare una spiegazione mitica all’evento dell’esilio e della deportazione, e che il libro di Giobbe parla della creazione dell’uomo in senso più stretto anche se attraverso lo stile romanzesco. Mi rendo conto di affermare cose al limite dell’eresia, se non già pienamente eretiche, ma sono all’inizio dei miei studi filosofico-teologici e conto di fare maggiore chiarezza su questi aspetti, pronto ad adeguarmi in tutto alla sana dottrina della Chiesa.
Fabio del Vecchio
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