DALLA SCIENZA ALL’ARTE
Se veramente l’impresa scientifica, perlomeno quando possa considerarsi progressiva e non ristagnante, né segue un metodo e delle argomentazioni razionali prestabilite né si fonda su dati osservativi neutrali, che differenza c’è tra la grande scienza e l’arte? Una provocazione, questa, innescata verso la fine degli anni sessanta dall’irriverente e sferzante critica dell’epistemologo austriaco Paul Karl Feyerabend (1926-1994).
Secondo l’analisi feyerabendiana portata avanti in Contro il Metodo (1975) e in altri scritti posteriori, infatti, un’indagine che possa considerarsi “sensibile” alle reali dinamiche della pratica scientifica e ben informata circa gli aspetti storici della scienza, dimostra che non esiste alcun “metodo scientifico” o “regola unica” in grado di sovrintendere sub specie aeternitatis ogni progetto di ricerca rendendolo, allo stesso tempo, scientifico e fidato. Una tesi, quest’ultima, che ha comportato la distruzione di qualsivoglia metodologia precostituita e che ha messo capo al noto e sarcastico principio anything goes. Sulla scia di questo “anarchismo” epistemologico Feyerabend, noto appassionato di arti figurative e di teatro, giunse in più di un’occasione ad accostare la figura dello scienziato a quella dell’artista giacché entrambi, piuttosto che seguire pedissequamente norme e metodi astratti, non farebbero altro che elaborare liberamente una pluralità di “stili” di lavoro diversi e incommensurabili tra loro. Tuttavia, secondo l’invettiva feyerabendiana, mentre in storia dell’arte sarebbe pretestuoso e fuorviante cercare di confutare una corrente artistica a vantaggio di un’altra giacché ivi risulta pacifica, per così dire, la medesima legittimità di vedere e di percepire il mondo da parte di tutte le correnti artistiche; sul versante scientifico non è mai mancata da parte di epistemologi e scienziati la recondita sensazione che il proprio metodo rappresenti piuttosto la strada privilegiata nonché propedeutica verso una presunta nuomenica Realtà. In realtà, conclude Feyerabend nel suo ultimo e struggente saggio, “la Realtà è una donna che non conosceremo mai” in quanto, facendo leva sulla teoria secondo la quale le nostre percezioni sono sempre “cariche di teorie”, essa si limita a darci delle risposte circoscritte ai nostri “quadri” concettuali e giammai definitive e universali.
Sebbene, dunque, la grande scienza occidentale non possa affatto considerarsi come una graduale approssimazione vero l’Unica Teoria Valida, essa si è trasformata nel corso degli ultimi secoli da “stile” di pensiero in “mostro infalsificabile” dalle cui fauci sono divampati pericolosi miti come la Verità, la Realtà e il Metodo incapaci, in ultima istanza, di rendere giustizia alla straordinaria complessità e ricchezza dell’Essere.
Ed è proprio per sopperire a questa incapacità che interviene la straordinaria fecondità dell’espressione artistica in direzione della quale anche la scienza dovrebbe tendere. L’arte a cui si riferisce Feyerabend, tuttavia, non è certo la pittura scientifica tanto caldeggiata dall’Alberti e dal Vasari, bensì quelle correnti avanguardiste come il dadaismo e il teatro di Ionesco attraverso le quali ci si propone, per così dire, di criticare e mettere in mora, anziché confermarle e lucidale, quelle “linee di partito” figlie dell’autorità di una Ragione che, malauguratamente, è diventata troppo ingombrante e onnipresente nelle nostre vite tanto da pregiudicarne uno sviluppo che possa considerarsi libero, sano e aperto al ricco oceano dell’Essere.
Diego-Manzi